L’arte come forma di riscatto

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Cos’è l’arte? Ci sono mille modi per definirla. Di sicuro l’arte è un mezzo di comunicazione, e come tale permette di trasmettere diversi messaggi: amore, bellezza, verità oppure sofferenza. Da una parte c’è l’artista, che può essere in grado di suggerire degli stimoli o delle ispirazioni superiori; dall’altra c’è il pubblico, che attraverso la propria sensibilità può recepire quelle sensazioni.

In mancanza di una comunicazione tra artista e pubblico, l’arte semplicemente non esiste. Ecco allora che l’arte può farsi mezzo dei più diversi messaggi, diventando per esempio narrazione e al tempo stesso veicolo di riscatto e redenzione.

A suggerirlo in modo tonante è stato tra gli altri Nietzsche, nella sua monumentale opera postuma “La volontà di potenza”: qui si legge che l’arte «è quella che più rende possibile la vita», per poi citare «l’arte come la redenzione di chi sa – di colui che vede il carattere terribile ed enigmatico dell’esistenza, di chi vuole vederlo, di chi conosce tragicamente» e ancora, «l’arte come redenzione del sofferente – la via verso condizioni in cui la sofferenza viene voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma del grande rapimento».

Senza lasciarci trascinare dal nichilismo, vediamo alcuni esempi di come e quanto l’arte può essere mezzo di riscatto, di redenzione e persino di rinascita, attraverso la vita di due artisti del Novecento e di un’associazione statunitense. Prima, però, faremo una piccola fuga nell’antica Grecia.

L’arte come risarcimento della sofferenza: l’arte dell’Antica Grecia

Come doveva essere vivere nell’antica Grecia? Come si viveva ai tempi di Omero, e nei secoli successivi del trionfo del mondo ellenico? Parliamo di un mondo antico, di un mondo certo molto più semplice rispetto a quello odierno, peraltro in una civiltà pronta a fare passi da gigante verso il progresso.

Non possiamo però parlare di un mondo confortevole e sicuro. Il lavoro duro, le guerre, le malattie: la sofferenza doveva essere inevitabilmente una componente importante e quasi inevitabile della vita della maggior parte delle persone.

Eppure sappiamo molto bene come gli abitanti della Grecia antica ci vengono tramandati dall’arte dell’epoca: pensiamo agli eroi e ai fieri combattenti dell’epica omerica per l’appunto, ma pensiamo anche alla statuaria di quei tempi.

Qui abbiamo a che fare con uomini in piena salute, muscolosi e aitanti, semplicemente stupendi. Ma il dolore viene sempre rappresentato in modo sublime e eroico, si pensi per esempio all’originale grego della scuola rodia del Gruppo del Laocoonte. Il motivo è semplice: la bellezza di queste opere rappresenta più o meno consapevolmente un risarcimento della sofferenza per la comunità da cui sono nate.

Il gruppo del Laocoonte, immortalato il 9 ottobre 2020 al Museo Vaticano di Roma da Emanuele Liali. Fonte: wikipedia.org

L’arte come riscatto: Antonio Ligabue

Il desiderio di riscatto è quello che ci spinge a liberare la nostra immagine da una precedente vessazione o privazione. Ecco allora che si parla di riscatto nel momento in cui si cerca una rivalsa per una delusione professionale, o persino sportiva.

Ma ci sono persone che hanno invece dedicato la loro intera vita al riscatto sociale, persone che cioè sono nate circondate da privazioni e che hanno mosso ogni singolo passo per liberarsi da quella situazione. E di certo in molti casi il mezzo che viene utilizzato per ottenere il riscatto è per l’appunto l’arte. Quest’ultima permette, al medesimo tempo, sia di comunicare la propria voglia di rivalsa, sia potenzialmente di ottenere il proprio risarcimento.

Una particolare e famosa storia di rivalsa avvenuta grazie all’arte è certamente quella di Antonio Ligabue, tra i pittori più amati del Novecento.

L’infanzia

Definito spesso pittore naïf, in realtà è stato molto di più. Nato a Zurigo nel 1899 da un emigrata bellunese, senza padre, viene registrato come Antonio Costa e affidato a una coppia locale. Con essa, di fatto, vivrà per tutta l’infanzia e l’adolescenza, fino alla soglia dell’età adulta.

Nel frattempo la madre si sposa con Bonfiglio Laccabue, il quale decise di legittimare Antonio con il proprio cognome. Mosso dal disprezzo verso il patrigno, Antonio lo cambierà però in Ligabue.

Già a 13 anni, Antonio, manifesta dei problemi psichici e viene così iscritto presso un collegio per ragazzi con disabilità. Raggiunta faticosamente la quarta elementare all’età di 15 anni, inizia a mantenersi con lavori occasionali, per essere ricoverato la prima volta in una clinica psichiatrica a 18 anni.

Questo, lungo 3 mesi, sarà per l’appunto solamente il primo di diversi ricoveri, mentre la sua vita sregolata lo porta nel 1919 a essere denunciato (peraltro dalla sua stessa madre adottiva, con il quale avrà sempre un rapporto profondo ma travagliato) ed espulso dalla Svizzera.

Il trasferimento a Gualtieri

Viene disposto il suo trasferimento forzato a Gualtieri, in Emilia, paese natale del patrigno. Antonio non conosce l’italiano, è collerico, e non riesce a integrarsi: prova a tornare in Svizzera, ma viene prontamente ricondotto a Gualtieri.

Qui, riprendendo la passione per il disegno coltivata durante la scuola, inizia a dipingere e realizzare delle sculture. Comincia così a regalare ai paesani queste piccole opere d’arte in cambio di servizi, con tante persone disposte ad accettare i suoi lavori non tanto come apprezzati, quanto in realtà come puro atto di carità.

Antonio Ligabue, Pantera, bronzo, 1939-40, 53 x 21 x 9,5 cm

L’incontro con Renato Marino Mazzacurati e il riconoscimento del valore artistico

Nel 1928 conobbe per caso lo scultore e pittore Renato Marino Mazzacurati, che riuscì a individuare il talento e l’arte genuina di Antonio, insegnando a quest’ultimo la pittura con colori a olio.

Il riconoscimento pubblico del valore artistico di Ligabue iniziò tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. È l’epoca delle prime piccole mostre, dei primi guadagni reali, e dell’uscita definitiva dal mondo dell’indigenza, arrivando perfino a girare regolarmente con un autista.

Antonio Ligabue, Ritorno dai campi con paesaggio svizzero, 1955-1957, olio su faesite, 65×100 cm

Nel 1961 arriva la prima esposizione a Roma, presso la galleria “La Barcaccia”. Purtroppo, però, Ligabue non potrà godere a lungo del successo: colpito da una paresi a fine 1962, viene ricoverato in ospedale, dove – pur continuando nel frattempo a dipingere – morirà nel 1965.

Autentico primitivo, capace come pochi altri di dipingere senza formalismi in quanto semplicemente spinto da una necessità interiore: per Ligabue l’arte è stata un’esigenza innata, nonché un potente mezzo verso il riscatto.

Una figura importante per la storia del femminismo: Artemisia Gentileschi

Artemisia Gentileschi è stata una pittrice italiana del XVII secolo, considerata una delle figure più influenti e importanti nella storia dell’arte. La sua vita e la sua carriera di pittrice sono state segnate da una serie di sfide e successi straordinari.

Artemisia nacque a Roma nel 1593, figlia del pittore Orazio Gentileschi. Fin da giovane, dimostrò un talento straordinario per la pittura, e suo padre riconobbe subito il suo potenziale artistico, incoraggiandola a svilupparlo. Ricevette una formazione artistica completa, apprendendo le tecniche e gli stili dei maestri dell’epoca.

La sua carriera si sviluppò in un’epoca in cui l’accesso delle donne all’arte e all’istruzione era limitato. Tuttavia, Artemisia riuscì a superare queste restrizioni e ottenne successo e riconoscimento per il suo lavoro. I suoi dipinti si caratterizzavano per il realismo, l’intensità emotiva e la rappresentazione di figure femminili forti e potenti.

La vita di Artemisia prese una svolta drammatica quando, all’età di diciassette anni, fu vittima di uno stupro commesso da un amico e collaboratore di suo padre, Agostino Tassi. L’aggressione portò a un processo legale doloroso, durante il quale Artemisia fu sottoposta a interrogatori invasivi e umilianti. Nonostante l’umiliazione e il trauma subiti, Artemisia non si arrese. La sua determinazione a ottenere giustizia e a preservare la sua dignità si rifletté nel suo lavoro artistico.

In questo periodo, Artemisia produsse alcune delle sue opere più potenti e significative. Dipinse quadri che esprimevano il suo dolore, la sua rabbia e la sua forza interiore. “Giuditta che decapita Oloferne” è uno dei suoi dipinti più famosi e rappresenta la vendetta di una donna contro l’oppressore. Questa opera diventò un simbolo della sua lotta per la giustizia e della sua identità come artista.

Dopo il processo, Artemisia lasciò Roma e visse e lavorò in diverse città italiane, guadagnandosi una reputazione sempre crescente come una delle pittrici più talentuose dell’epoca. Le sue opere furono richieste dalle corti e dai collezionisti più importanti d’Europa.

Le sue opere continuano ad ispirare e affascinare il pubblico moderno, e Artemisia Gentileschi è considerata una delle più grandi artiste del suo tempo. La sua storia rappresenta una testimonianza di resilienza, coraggio e talento artistico che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’arte.

Artemisia Gentileschi, San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, 1636-37 ca., Olio su Tela, 300×200 cm, Pozzuoli, Cattedrale di Pozzuoli.

L’arte come rivincita: Thornton Dial

Per narrare un’altra storia di arte come rivincita andiamo oltreoceano, in Alabama. Thornton Dial è nato nel 1928 in un’ex piantagione di cotone, dove la sua famiglia allargata era impiegata in un rapporto di mezzadria.

Iniziò a lavorare giovanissimo, per mantenere sé stesso e la giovane sua madre. Nel 1983, quando la fabbrica nella quale aveva lavorato per gran parte della vita chiuse, decise di dedicarsi seriamente all’arte, la sua passione, che fino a quel momento era stata poco più di un saltuario passatempo.

Come ebbe a dire poi riguardo a quella decisione «non ho mai avuto nessun piano per la mia vita, così ho iniziato a creare arte». Gran parte delle sue sculture e dei suoi quadri sono creati partendo dall’assemblaggio di scarti di legno, di stagno, di strati di vernice trovati nei rifiuti, affrontando i più diversi temi, da scene di vita quotidiana per arrivare alla natura, alla rappresentazione degli afroamericani nella società americana e via dicendo.

Nel 1987, e quindi quasi sessantenne, Dial venne notato dall’artista Lonnie Holley, che lo introdusse al collezionista e storico dell’arte William Arnett: fu lui a portare attenzione a livello nazionale sulle opere di Dial. Molte delle sue opere vennero per esempio acquistate pochi anni dopo da Jane Fonda.

A partire dagli anni Novanta, e per tutti gli anni 2000, Thornton Dial è stato al centro dell’attenzione dei collezionisti statunitensi, dapprima come un outsider, quindi come punto di riferimento. Le opere di questo artista autodidatta e scarsamente istruito, nato in mezzo a enormi difficoltà, sono state esposte al Met, al fianco di lavori di grandi artisti come Pollock ed Herrera, e in altri grandi musei.

L’arte come redenzione: i dipinti dal carcere

Ci sono tanti altri esempi e storie in cui l’arte figura come veicolo e simbolo di riscatto. E non serve per forza cercare queste narrazioni nelle vite degli artisti degli ultimi secoli: l’arte può essere un mezzo di redenzione pur senza vedere approdare i lavori in rinomate gallerie o in famosi musei.

Si pensi per esempio alle tante persone che, all’interno degli istituti penitenziari, trovano nell’arte non solo conforto, ma anche un modo per riscattare la propria persona. A partire da questo presupposto è per esempio nata l’associazione “Art for Redemption”, fondata da Buck Adams, un ex detenuto dell’Arkansas Valley Correction Facility.

Logo di Art for Redemption

Lo scopo dell’associazione è quello di fornire alle persone incarcerate con sensibilità artistiche un aiuto per il loro futuro, attraverso la vendita delle loro opere. In che modo? Semplice: le opere realizzate dai detenuti vengono messe in vendita online. Gli artisti ricevono il 50% del ricavato, mentre l’altra metà viene utilizzata per coprire i costi di gestione. Così facendo i detenuti possono mettere insieme dei risparmi in vista del proprio rilascio, in modo da facilitare il riscatto e prevenire i tanto comuni fenomeni di recidività.

Non è peraltro tutto qui: stimolare le capacità artistiche di queste persone significa anche aiutarle a capire meglio sé stesse, ponendo le basi per un futuro migliore, e quindi per un concreto riscatto. Se non nell’arte, (anche) grazie all’arte.

Articolo scritto da:

Federico è appassionato di scrittura, di arte e di sport. Su MomArte si occupa della realizzazione degli articoli e dei rapporti con gli Artisti con cui collaboriamo!

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